Impossibile? … Se lo dice la mente é falso

Passeggiando lungo la pineta del lungomare ho notato un paio di illusioni ottiche. Si tratta del classico coniglio \ anatra e la testa \ coda di un volatile.

La descrizione di ciascuna illusione ottica riporta una frase interessante: è impossibile cogliere le due versioni contemporaneamente quando l’informazione è ambigua; il cervello privilegia solo una forma (un senso).

 

In pratica per la mente ordinaria (mente condizionata) sembra impossibile cogliere entrambe le sagome in un colpo solo (sia il profilo del coniglio sia dell’anatra); oppure sembra impossibile cogliere allo stesso tempo sia la coda che la testa dell’uccello (o sembra andare da una parte o sembra andare dall’altra parte).

Questa “impossibilità” (come molte altre impossibilità, limitazioni, paradossi) vale solo per la mente condizionata (o la coscienza incantata)  dell’uomo comune.

Alcuni di voi, se aprono un pochino la mente e provano a spingersi oltre il senso (i significati, le credenze, le regole, le paure del sistema cognitivo), potrebbero superare quella limitazione percettiva e potrebbero scoprire che ciò che per alcuni sembra impossibile per altri è possibilissimo. Se l’attenzione viene sbloccata dall’abituale modo di vedere potreste percepire il due nell’uno; potreste riconoscere non dualità dell’apparente dualità; potreste superare la finta opposizione (o anatra o coniglio) e riconoscere la non separazione (non esclusione, non opposizione, sia anatra sia coniglio nello stesso tempo).

L’esempio delle illusioni ottiche è utile perché mostra il mal funzionamento della mente umana:  coglie esclusivamente la dualità o la separazione (o un senso o un controsenso, o bene o male, o giusto o sbagliato, o anatra o coniglio). Per tale mente la non dualità è un’impossibilità, mentre in realtà l’apparente impossibilità è proprio la percezione ordinaria di se stessi, degli altri, del corpo, del mondo.

Il sistema cognitivo (sociale, scientifico, religioso) vi dice che la cosiddetta realtà esiste solo nella dualità (separazione) e rientra solo nei ristretti limiti del “possibile” mondo ordinario (duale).

Voi potete scegliere se credere davvero a tale dualità o a tale sistema (incluso il vostro limitante sistema cognitivo\percettivo) o se spingervi oltre tale sistema, oltre tale impossibilità, oltre tali limitazioni, oltre tali credenze, oltre tali storie, oltre tali paure, oltre tali illusioni… Potete spingervi oltre qualunque dualità (diversificazione, classificazione, interpretazione, percezione).

E anche se la mente continua a farsi condizionare dalle apparenze esterne, voi potete smettere di crederci o potete smettere farvi condizionare, smettere di affidarvi alle strambe interpretazioni del vostro cervello. Finché continuate a credere a quelle percezioni e a quelle interpretazioni continuerete a soffrire inutilmente.

Come criterio generale potete attenervi al seguente motto: se lo dice la mente (l’intelletto, l’ego) allora è falso.

Se la mente (l’intelletto o l’ego) pensa che qualcosa sia impossibile allora è possibile; se vi dice che non si può fare, allora si può fare; se pensa che qualcosa abbia soltanto un senso (un significato) allora ha sicuramente un altro significato e può andare in qualunque altro senso.

Considerate il mondo come una gigantesca illusione ottica: invece di guardare un solo aspetto e attribuire un unico senso, divertitevi a trovare nuove forme, altri sensi, diversi significati. In fin dei conti un’illusione può assumere qualunque forma, senso, significato e al contempo può assumere un’altra forma, senso, significato proprio perché in realtà non ha nessuna forma (nessun senso, nessun significato) a parte ciò che viene percepito (immaginato, interpretato, sognato).

Oltre a tutto ciò che sognate (credete, percepite, immaginate)  può esserci di tutto proprio perché in realtà non c’è niente oltre quei sogni, oltre quelle credenze, oltre quelle storie, oltre quelle percezioni.

Se ci fosse qualcosa (o se ci fosse solo una cosa) allora non potrebbe esserci di tutto.

(ZeRo: https://payhip.com/ZeRoVe)

Un sannyasin al mare, L’arte di non arrabbiarsi e il vangelo di ZeRo

Mentre scrivo mi trovo in un ristorante sul lungomare dove si è appena fermato un tizio vestito da sannyasin (rinunciante indiano) con in mano dei libri.

Mi propose “l’arte di non arrabbiarsi”. Dato che l’antipasto non era ancora arrivato, e visto che mi piace provocare i discepolli, feci finta di essere interessato all’argomento.

Gli chiesi se li avesse scritti lui e mi rispose no. Si trattava di messaggi preziosi scritti dal suo caro maestro. Fintamente incuriosito, gli chiesi se il suo guru era vivo o morto. Lui mi ha fatto subito una correzione prevedibile: la mia domanda era mal posta perché il suo maestro non era morto ma aveva soltanto lasciato il corpo alla fine degli anni settanta.

Quella correzione fu più che sufficiente per confermare il mio sospetto: si trattava effettivamente di un discepollo.

Intenerito dai suoi occhioni spirituali (modo velato per dire occhi da triglia), mi venne voglia di fargli un favore e rompergli qualche incantesimo, ma date le premesse, il contesto e il profumo di cozze, decisi di lasciare perdere ogni tentativo di dissuasione.

Volevo dargli qualche dritta ma avendo intuito l’atteggiamento tipico da testimone di Genova in stile indù, ho preferito tagliare corto e svelargli che io faccio lo stesso mestiere del suo guru, trasmetto messaggi preziosi anche sotto forma di libri.

Li per li mi ha guardato un po’ storto, come se avessi osato paragonarmi al suo guru: forse l’ha percepita come una insolenza da gradasso e per mettermi in riga mi ha esposto qualche pregio del suo maestro.

Naturalmente ho cordialmente rifiutato la sua offerta, anche se in realtà avrei voluto controbattere con una controfferta irrinunciabile, il disincanto, ma la fame ha avuto la meglio sulla fama e l’antipasto di pesce era molto più importante di quel potenziale seguace.

Al mio rifiuto mi ha risposto – sorridendo – che non sapevo cosa mi stavo perdendo non leggendo i libri del suo sacro, amato, divino maestro.

Peccato che sia finita così, ma la mia priorità in quel momento non era quel giovane aspirante santone ma il piatto fumante di cozze alla tarantina che richiamava tutta la mia attenzione.

Mentre gustavo quelle cozze pensavo alle possibili scelte alternative che avrei potuto fare o al modo in cui quell’incontro sarebbe potuto andare.

Avrei potuto sfoggiare il metodo zero. Invece dell’arte di non arrabbiarsi avrei potuto insegnargli l’arte di azzerare la propria testa di cazzo, ma credo che quello non fosse l’approccio e il momento ideale, soprattutto in un ristorante.

In alternativa avrei potuto convertire quel sannyasin in un essere disincantato. Da pseudo-rinunciante (o rinunciante parziale) a rinunciante totale. Gli avrei insegnato a rinunciare non solo al suo irrinunciabile guru ma all’intero mondo delle apparenze. Ma probabilmente una coscienza troppo incantata non può passare così facilmente e rapidamente verso il disincanto.

L’ultima e migliore alternativa era quella di assumere quel ridicolo personaggio come promotore del mio materiale. Mi farebbe comodo un individuo talmente volenteroso da partire dall’Umbria, arrivare a Cervia, andare in giro per le spiagge e – invece di gridare “cocco bello” – promuovere il mio materiale gridando “disincanto, rottura incantesimi, ripartenza da zero, azzeramento teste di cazzo”.

P.S.

Se tra i lettori c’è qualche rinunciante disposto a lasciare tutto per seguire un nuovo guru e promuovere ovunque questi preziosi messaggi mi può mandare un’email, cosi ci organizziamo per diffondere il vangelo secondo Zero.

Sono preferibili belle presenze, possibilmente sotto i 40 anni.

ZeRo:

https://payhip.com/ZeRoVe

Più credo in “me”, più ho paura…

L’altro giorno un tizio (o una tizia) ha lasciato un commento interessante: “credo ancora in me perché ho paura”.

Per l’esattezza ha scritto: “So che dormo ma non riesco a svegliarmi.. credo ancora in me perché ho paura..”.

Poi è sparito/a e non ha lasciato ulteriori dettagli, indizi, richieste particolari, per cui non ho potuto approfondire la questione, ma quel commento era più che sufficiente per sviluppare questa riflessione che non riguarda soltanto quell’individuo ma la maggioranza dell’umanità.

Di solito non prendo in considerazione i commenti e se li prendo in considerazione cerco di tagliare corto, soprattutto perché so che il commentatore di turno vuole tirare lunga una prevedibile storia personale che non ha nulla di personale e che finisce con un prevedibile non lieto fine: è sempre la solita solfa, ma lui (o lei) crede che gli stia accadendo qualcosa di “unico, speciale, straordinario” (sia in positivo che negativo). E invece non c’è nulla di straordinario in quello che accade nella vita di un qualunque ridicolo personaggio umano assuefatto e incantato dal mondo delle apparenze.

Tornando a quel commentatore, quell’individuo si è accorto che quella “paura” è correlata a ciò che crede di essere, ciò che chiamiamo “io” o “me”.

Si è accorto che non si sta bene in compagnia di sé – quando quel sé è un maniacale “me”.

Si è reso conto che più crede in quel “me”,  più si sente a disagio: più si chiude in sé e più l’esistenza diventa opprimente.

In stato di egocentrismo (la condizione normale di un qualunque essere umano) si sta malissimo perché si vive segregati in una falsa identità: è come vivere con una camicia di forza che ti impedisce qualunque movimento, ti irrigidisce i muscoli, ti soffoca, non ti fa dormire bene, ti impedisce di esprimere ciò che potresti o vorresti esprimere.

Questa è l’identità abituale di quasi tutti gli umani: una presenza sgradevole, tossica, nauseante, nevrotica, handicappata, impedita, ritardata.

Quello là fa bene a diffidare di sé (o della sua identità abituale) perché quella roba non solo è incredibilmente spiacevole ma è anche incredibilmente schifosa.

Finalmente ha sentito il tanfo della propria persona, il tanfo del suo intelletto, il tanfo del suo io, e finalmente ha reagito nel modo corretto: con disprezzo, orrore, rifiuto.

Come si può apprezzare una schifezza del genere e poi pretendere di essere felici, compassionevoli, spensierati?

Quella roba che aleggia nella mente umana è l’antitesi della compassione, della spensieratezza, della pace.

In quel commento anonimo c’è stato un riconoscimento interessante.

Quell’individuo ha (involontariamente) constatato qualcosa di importante: la credenza in sé, nel proprio io, in ciò che crede di essere, produce paura, insicurezza, disagio, titubanza, delusione, insoddisfazione.

Quello che forse non ha notato è che fa anche schifo.

Non ho scritto che quell’individuo fa schifo ma che lui (o lei) quando vive in quella pseudo-identità fa schifo.

Quell’essere schifoso che quasi tutti chiamano io (oppure gli danno un nome e cognome – Maurizio, Gianni, Maria, Francesco, Marisa) è di una schifezza abominevole, è un aborto partorito da una mente malata (la mente dell’uomo comune).

Forse quel tizio si è anche accorto che le altre persone, incluse le persone a cui vuole bene, quando sono identificate con quella roba schifosa, fanno altrettanto paura e sono altrettanto schifose.

Cosa può uscire da qualcosa di schifoso?

L’identità abituale è un abominio ed è normale che una roba del genere (ciò che credete erroneamente di essere) non produca contentezza, allegria, buonumore, tranquillità, fiducia.

La sfiducia che quella persona prova nei confronti di ciò che crede di essere è il punto di partenza per disfarsi di ciò che ha creduto di essere per tutti questi anni e – gradualmente – riconoscere ciò che è.

Molti non riconoscono il valore di quella sfiducia perché in fondo si tratta di mettere in questione proprio il fulcro della propria esistenza: se stessi, l’idea che si ha di sé oppure la percezione di se stessi.

Quel tizio ha fatto un’associazione mentale interessante:  “più credo in me” e più “ho paura”.

Ha intuito che quella credenza in quel me produce indesiderabili effetti collaterali (psicologici, neurologici, fisiologici, relazionali).

Ha presagito che il “me” in cui crede non deve essere qualcosa in cui vale la pena credere perché altrimenti – se fosse qualcosa di utile o benefico – non produrrebbe ciò che produce nella vita di molte persone: tensione, disperazione, insicurezza, agitazione, instabilità, frenesia, confusione.

Ha intuito che non dovrebbe credere nella persona che crede di essere, tuttavia – come molti altri – non sa come smettere di credere in ciò che ha sempre creduto di essere.

Ha intuito che sta credendo in qualcosa che non è benefico, cioè “funzionale” al suo benessere, eppure – anche dopo questa constatazione – una parte della sua mente continua a crederci.

Come mai?

Perché sbrogliare quella matassa non è un gioco da ragazzi.

Se fosse una passeggiata non percepireste tutto ciò che siete soliti percepire; la vostra mente non vi farebbe impazzire, non sparerebbe cazzate dalla mattina alla sera, non vi infastidirebbe, non produrrebbe tutti quei contenuti inutili e fastidiosi (preoccupazioni, dubbi, dilemmi, timori, aspettative, superstizioni).

Quell’individuo ha almeno avuto il coraggio di fare ciò che dovrebbero fare tutti gli esseri umani: accorgersi e ammettere che in loro – nella propria persona, nella propria pseudo-identità, nella propria testa di cazzo – c’è qualcosa che non quadra, c’è qualcosa di incredibilmente assurdo, disfunzionale, destabilizzante.

Senza quella prima, sincera, amara ammissione, tutte le terapie, le sessioni psicoterapeutiche, i mantra, le ore di meditazione, le scampanate tibetane, non serviranno a un cazzo: al massimo rafforzeranno quella pseudo-identità che non era stata intravista nei precedenti 80 anni della propria schifosa esistenza da ridicolo personaggio umano.

Se invece si vuole godere dei frutti dell’esistenza, vivere in uno stato di grazia, usufruire dei diritti elargiti dal Cosmo, allora occorre innanzitutto fare una cosa: sbarazzarsi di quella schifosa pseudo-identità.

Nascere (e rinascere) ignorando e confondendo la propria identità è la peggior disgrazia che possa capitare a qualunque essere senziente.

ZeRo: https://payhip.com/ZeRoVe

Perché vivo di rendita?

Anche oggi, come quasi tutti i giorni, sono andato a caccia di more (non le More a due gambe, anche se le preferisco alle Bionde) ma le more che si trovano sulle piante. Avendo la fortuna di vivere in una zona piena di more e – a volte – ciliegie, prendo la bici, pedalo per qualche chilometro e raccolgo qualche frutto. Mentre raccolgo questi frutti mi sento inspiegabilmente l’uomo più ricco del mondo. Inspiegabilmente perché in realtà economicamente non sono ricco, non ho ereditato un’ingente somma di denaro, non ho fatto successo (e non ci tengo), non mi sono fatto il mazzo illudendomi di percepire una buona pensione.

Eppure, anche se non sguazzo nell’oro, vivo di rendita.

Mi bastano questi pochi frutti per percepire la ricchezza, l’abbondanza, la completezza.

Vivo di rendita non perché vendo migliaia di libri e nemmeno perché ho letto qualche libricino sui “segreti per vivere senza lavorare”, ma vivo di rendita semplicemente perché non sono fesso.

Non sono fesso perché non lavoro per gli altri e non lavoro neppure per me (per il mio ego, il mio ridicolo personaggio sociale).

Dato che lo fa molto meglio del mio “io”, lascio che sia la realtà a lavorare – a modo suo, con i suoi tempi, con le sue misure, con i suoi criteri.

Non mi sforzo di cambiare la realtà, non scendo in campo per competere contro gli altri, non mi faccio in quattro per avere di più.

Non mi impiccio dei frutti della realtà: se non ci sono le more, vada per le bionde.

Vivo di rendita nel senso che vivo della rendita della realtà: la realtà – dal sottoscritto – viene percepita come un generatore di energia e dunque ha sempre qualcosa da rendere, donare, condividere. Il mio compito, la mia funzione, il mio ruolo consiste nell’usufruire di ciò che viene dato dalla realtà.

Questo avviene soprattutto quando il proprio essere è in allineamento con il grande schema delle cose.

Con l’autorealizzazione le entrate sono garantite.

Come fanno ad esserci uscite (perdite, mancanze, debiti) se percepisci l’abbondanza della realtà e riconosci la pienezza del tuo essere?

C’è un motto taoista che recita così: “Il Tao è inesauribile… sfruttalo finché sei in tempo”.

Ecco, io mi limito a sfruttare l’inesauribile Tao.

Come mai tanti (la maggioranza dell’umanità) non sfrutta l’inesauribile Tao? Perché tanti non vivono della rendita della realtà?

Perché gli manca qualcosa di apparentemente immancabile: la capacità di vedere “ciò che è” e riconoscere (comprendere, discriminare) “ciò che non è”.

Mentre sto scrivendo questo testo sto ascoltando con calma un reggaeton intitolato “calma” di pedro capo e farruko che riassume la mia vita:

“Calma, mi vida, con calma

Que nada hace falta

Si estamos juntitos andando”

Tradotto:

“Calma, la mia vita, con calma

che non manca nulla

Se camminiamo insieme”

In altre parole, vivo nella completezza perché non può mancarmi niente e non può mancarmi niente perché cammino insieme alla realtà, viaggio sulla sua stessa lunghezza d’onda perché so (sento, riconosco, realizzo) che non sono separato da Lei.

Zero: https://payhip.com/ZeRoVe

Smettila di fidarti delle persone sbagliate, credere in un sistema fallimentare, farti illudere dal mondo delle apparenze

L’altro giorno stavo modificando un programma sul computer.

Il giorno dopo ho notato che il programma era difettoso e non salvava le modifiche che venivano fatte. La stessa cosa si è verificata nei giorni successivi. In pratica stavo facendo degli sforzi inutili per cambiare qualcosa di fallimentare, inaffidabile, difettoso.

La reazione immediata è stata molto semplice: chiudere quel programma e non utilizzarlo più.

Questa è la reazione naturale di fronte a quel tipo di consapevolezza.

Il bello è che non occorre sforzarsi di reagire così, bensì la reazione sorge spontaneamente come diretta conseguenza di quel riconoscimento.

Se favorite una consapevolezza di questo tipo, cioè riconoscere ciò che è falso, difettoso, inaffidabile, fittizio, illusorio, instabile, vedrete che la reazione opportuna non tarderà a manifestarsi. E purtroppo nel 90% dei casi la mente ordinaria non è in grado di riconoscere qualcosa di falso, irreale, finto, ingannevole, instabile, inaffidabile.

Eppure gli indizi sono ovunque; il sistema cognitivo (sputando sentenze a caso) vi dimostra quotidianamente la sua inaffidabilità; il sistema sociale-politico-economico-religioso (mediante iniziative balorde e irrazionali) vi dimostra la sua insensatezza.

Eppure cosa fa la maggioranza?

Si affida ciecamente al proprio sistema rincoglionitivo e finge di non vedere le assurdità del sistema socio-culturale-religioso.

Il che è come se nel mio caso fingessi che il programma (non funzionante) funzionasse alla perfezione. Questo è ciò che fate quando vi fidate del mondo delle apparenze o quando vi fidate del vostro sistema cognitivo, del vostro io, della vostra ottusa volontà personale, del vostro limitato punto di vista personale. E poi soffrite, poi piangete, poi vi lamentate, poi andate da un consolatore, un dispensatore di palliativi, un santone che ve lo mette in quel posto.

E dopo?

Dopo ovviamente ascoltate (nuovamente) il vostro sistema rincoglionitivo, vi fidate delle persone sbagliate, credete in un sistema fallimentare, vi fate illudere dal mondo delle apparenze e cercate un altro consolatore, un altro dispensatore di palliativi, un altro santone che ve lo rimette nel solito posto.

Finché non capite che la vostra persona, il vostro io, il vostro intelletto, il vostro limitato punto di vista personale non funzionano, non sorgerà quella reazione spontanea di disinganno, disillusione e auto-liberazione.

L’auto-liberazione non è questione di voto spirituale, castigo, rinuncia, astinenza, ascetismo, estasi mistica, ma semplicemente di sincerità, buon senso, funzionalità, efficacia, pragmatismo.

Come al solito si tratta di vedere quanto a lungo volete tenere gli occhi chiusi, la mente assonnata, la coscienza incantata… e quanto a lungo volete il disincanto, la lucidità, la risolutezza, la leggerezza, la spensieratezza, la beatitudine.

(ZeRo: https://payhip.com/ZeRoVe)

 

USCIRE DAL LABIRINTO SPIRITUALE, ARRENDENDOSI

Illuminazione, Risveglio, Auto-Realizzazione, ecc. non possono essere acquistati – confezionati – e consegnati come prodotti commerciali, merce, gioielli dentro una confezione dorata. Anche se molti ci hanno provato, per quanto l’imballaggio fosse esteticamente allettante, quel pacco era solo un pacco.
Alcuni ragionano come se l’Universo potesse essere comprato e venduto a mo’ di investimento di Wall Street.
Il vero ‘prezzo’ che paghiamo per quella comprensione profonda è la nostra vita.

Quel prezzo verrà pagato mediante la resa, l’arrendersi, il cedere le nostre credenze, cedere le nostre speranze e anche le nostre paure. Cedere persino i preconcetti su Dio, la verità, l’illuminazione e così via.
Tutte queste cose, se non vengono lasciate, possono diventare un’ingannevole zona di comfort personale.
Diventano una fantasia personale di come la realtà dovrebbe essere, di come gli altri dovrebbero comportarsi, e così via. Sono un comodo labirinto di convinzioni dentro cui a un certo punto finiamo tutti. Queste pareti poi vanno a delimitare la nostra presunta ‘identità’.
Alcuni però si accorgono che lì dentro alla nuova identità si è insinuata una stramba convinzione, che ci dice che la nostra identità è meglio di qualsiasi altra identità. Quella credenza, se mantenuta strenuamente, ci impedisce di vedere che la mente è finita in un nuovo labirinto, il labirinto spirituale.
Fortunatamente qualcosa di incognito interviene e butta giù le pareti del nostro labirinto mentale; butta giù le pareti della nostra ennesima identità. E questo fattore ignoto produce un effetto domino che continua a far cadere una ad una le pareti che definiscono il nostro concetto di realtà e identità.
Finché siamo a nostro agio con il nostro piccolo labirinto di credenze e rimaniamo attaccati al nostro ridicolo personaggio, o alla nostra pseudo-identità, verremo destabilizzati, scossi, disturbati, traumatizzati dagli scossoni dell’ignoto. Se invece abbandoniamo il concetto di noi stessi e della realtà, allora l’urto non sarà così destabilizzante e traumatico.
A volte, quando l’ignoto lascia cadere una delle nostre convinzioni su di noi (sugli altri o sul mondo), possiamo semplicemente espanderci al di sopra del nostro labirinto esistenziale.
Ma per elevarci dobbiamo prima lasciar cadere i pesi che ci atterriscono.
Alcuni parlano di resa.
La resa non è fallimento. La resa è l’onesta, schietta, umile, aperta ammissione che noi – con il nostro intelletto, con il nostro io, con il nostro ego – non sappiamo niente.
Con la resa cediamo il nostro falso sapere, sacrifichiamo la nostra pseudo-conoscenza, ci sbarazziamo della nostra ignoranza.
La resa permette l’apertura a un’altra conoscenza, la conoscenza di tutto ciò che l’ignoto ha tentato di mostrarci – ininterrottamente, per tutto questo tempo.
La resa è scoprire che noi siamo già appoggiati alla porta dell’ignoto. Se bussiamo a quella porta – senza aspettative su ciò che potrebbe o dovrebbe esserci dall’altra parte – potremmo essere meravigliosamente accolti dall’infinito.
Potremmo scoprire che là (e qua) c’è una pace che supera ogni comprensione.

( 【Z】【e】【R】【o】 ) : https://payhip.com/ZeRoVe

P.S.
Come al solito prendi queste parole con le pinze; non sono qui per dimostrarti niente. Anche se mi mandi un milione di euro, (e se lo desideri puoi farlo), non tenterei di provare o dimostrare ciò che ho scritto. Ma se proprio insisti, e vuoi arrenderti del tutto, si può fare un tentativo. Scommetto che a quel punto, quando resti in mutande alla Ramana, la resa sarà inevitabile.

La Verità esiste?

Domanda: La miglior domanda che riesca a farmi è sull’esistenza della verità. Però – per quanto rifletta a lungo – non riesco a trovare una risposta soddisfacente che interrompa questa ricerca (che sta diventando estenuante).

ZeRo: Questa è solo una suggestione e non una risposta definitiva per soddisfare il tuo intelletto.

Qualunque domanda può tornare utile, in qualunque momento.

Però sarebbe utile avere qualche unità di misura per intuire o percepire l’utilità di una domanda/risposta. Per quanto mi riguarda le domande/risposte non servono più a me, e in generale mi servivano (o mi servono) quasi esclusivamente per comunicare con qualcuno oppure per intrattenermi con l’immaginazione. Voglio dire che a un certo punto non avrai più bisogno di quello strumento (domanda/risposta intellettuale) perché le risposte verranno date prima (e senza) che tu faccia la domanda.

In tal senso la Verità può essere vista come una dispensatrice di risposte, soluzioni, chiarezza, lucidità.

A un certo punto sarà la Verità a rispondere, a mettersi in luce, a chiarire la tua mente da dubbi tenebrosi.

Sino a quel momento attendi con pazienza il suo arrivo.

Oppure abbandonati alla possibilità che la Verità ci sia e nota gli effetti di questo tuo abbandono fiducioso.

L’ego è la parte che non riesce ad abbandonarsi, attendere, pazientare. Non riuscendo ad attendere, l’ego cerca senza sosta, fomenta inutili domande e cerca inutili risposte.

Concludo con una riflessione sull’esistenza della verità.

Quando ti guardi attorno noti che qualcosa sembra esistere, ma quel qualcosa che sembra esistere non sembra davvero reale. Sembra reale come un fenomeno onirico per cui – in verità – non è reale.

Tuttavia per essere lì ha bisogno di una vera realtà (una Verità) che la faccia essere lì, che le dia energia, sostegno, potere, verosimiglianza. Quella roba che fa sembrare vero qualcosa – che dà energia, potere, verosimiglianza alla cosiddetta realtà – è la cosiddetta Verità.

Ecco, dunque la Verità è l’eterna fonte di energia rinnovabile che precede tutto ciò che ci “sembra” reale, ovvero tutto ciò che vediamo, sentiamo, pensiamo, viviamo.

La Verità esiste, le apparenze esterne no (sembrano esistere ma non è così).

Lei non muore, noi (ego individuali, persone, ridicoli personaggi sociali) moriamo.

Quante volte vuoi ripetere il ciclo del samsara? Quanto a lungo vuoi farti schiavizzare dal sistema?

 

Supponiamo che vi venga data la possibilità di non ripetere un errore, non rivivere un incubo, non subire un torto, non risperimentare un disagio, non riprodurre un trauma.

Rifiutare quella possibilità sarebbe come rifiutare il paradiso, la pace, la tranquillità, l’assenza di problemi, l’assenza di sofferenza inutile.

Il samsara consiste proprio nel non accorgersi di quella possibilità e nel ripetere un loop interminabile di problemi fittizi, difficoltà inutili, conflitti, traumi, litigi, dibattiti insensati.

L’autorealizzazione invece consiste nel realizzare quella possibilità non per sentito dire ma per esperienza diretta.

Nel corso della vostra esistenza vi vengono dati diversi indizi sull’esistenza di quella possibilità, la possibilità di non farsi travolgere passivamente e incessantemente dal ciclo del samsara.

Alcune tradizioni la mettono in termini di rinascita, reincarnazione, metempsicosi, bardo, etc… Tuttavia chi non ha dimestichezza con quella terminologia (e quella percezione) non può comprendere la portata di quel messaggio, per cui occorre chiarire i termini.

Il ciclo del samsara può essere semplificato e riformulato come un maledetto ciclo di sofferenze inutili, afflizioni, tormenti, disgrazie, traumi, sfighe, avversità.

Un altro elemento che caratterizza il ciclo del samsara è il senso di incompletezza. Quando il senso di incompletezza (mancanza, perdita, sfortuna) sembra intenso è come se foste completamente risucchiati dal samsara.

Se il senso di incompletezza corrisponde al samsara (o a un aspetto del samsara), allora la fine del senso di incompletezza corrisponde alla cessazione del samsara.

L’autorealizzazione è per l’appunto la cessazione di quel senso di incompletezza e dunque rappresenta la fine del samsara.

Come al solito per comprendersi meglio conviene semplificare il discorso.

Supponiamo che il ciclo del samsara si ripeta finché non raggiungete una completa maturità interiore. Per convenzione possiamo chiamarla maturità coscienziale, spirituale, trascendentale, metafisica. La definizione non importa, l’importante è quel grado di maturità che porta alla percezione di un misterioso senso di completezza. Con quella completezza il vostro essere ha concluso il proprio ciclo e finalmente si sente appagato semplicemente nel proprio essere e per il proprio essere. Non si sente appagato per una causa esterna, per un complimento, per un guadagno materiale, per un credito virtuale, per un privilegio sentimentale, per una conferma sociale, per un vantaggio psicologico.

Un essere del genere non può percepire l’incompletezza: non può essere convinto della propria incompletezza o dell’incompletezza altrui.

In termini esistenziali è come se avesse raggiunto l’apice del proprio processo evolutivo.

Chi arriva là si accorge che per lui o per lei il ciclo del samsara può continuare solo in apparenza.  L’essere autorealizzato si accorge di aver avuto accesso a una inspiegabile, misteriosa, miracolosa, incredibile possibilità. Si rende conto che quella possibilità esiste anche nella peggiore delle situazioni. Si accorge che quell’evento può avvenire in qualunque momento e può essere brusco e istantaneo come il risveglio dai sogni notturni.

E’ la porta finale del Truman Show, è l’anomalia di Matrix, è l’entrata (e l’uscita) dalla tana del bianconiglio, è il Gateless Gate dello Zen, lo Stream-entry buddhista, l’emancipazione dal bardo, è l’esaurimento del karma personale, è la morte in vita.

Non è una cosa che puoi spiegare con la logica della mente ordinaria: lo si può solo intuire con il giusto grado di maturità, lucidità e disincanto.

Una cosa è certa, quella possibilità – l’autorealizzazione, il senso di completezza – è l’unica cosa a cui dovrebbe aspirare un essere senziente.

Quando quella possibilità diventerà un dato di fatto vi rammaricherete soltanto del tempo speso ignorando bovinamente quella magica possibilità.

(ZeRo)

L’EGO HA PAURA DELLA BEATITUDINE… CIÒ CHE CREDETE DI ESSERE HA PAURA DI CIÒ CHE SIETE DAVVERO

Alcuni di voi  – per esperienza diretta – si saranno accorti dell’esistenza di una strana paura: la paura della Grazia (nel senso di beatitudine).

Senz’altro ricordate di esservi misteriosamente ritrovati in uno stato di grazia caratterizzato da una leggerezza e una lucidità fuori dall’ordinario. In questo stato di grazia la percezione è stata leggermente riconfigurata, in modo quasi impercettibile. Il cervello ha registrato quel cambiamento percettivo e l’ha incasellato nella categoria degli eventi inspiegabili. Mentre quella beatitudine si espandeva, e mentre voi venivate contagiati da quella magica sensazione, avrete notato che una parte di voi si sentiva come intimorita o minacciata da ciò che stava accadendo dentro e fuori di voi. Sì perché quella beatitudine non era immaginaria ma reale, nel senso che influiva sulle reazioni del corpo, sul mondo esterno, sul rapporto con gli altri: contemporaneamente a quello stato di grazia si verificavano piccoli o grandi miracoli, fenomeni difficili da notare e impossibili da spiegare con la logica dell’uomo comune.

I più attenti ricorderanno anche la reazione immediata (o dilazionata nel tempo) della propria mente: paura di fondersi con quell’oceano di beatitudine.

Ovviamente la parte che ha tentato di sabotare tutto è sempre il famigerato ego, che nel nostro caso indica la vostra pseudo-identità abituale, ciò che credete di essere nella vita di tutti i giorni.

Nell’esempio della beatitudine, ciò che credevate erroneamente di essere aveva paura di ciò che stava scoprendo di essere.

Lo ripeto perché questa parte è fondamentale: ciò che credete di essere ha paura di ciò che siete davvero.

Il che è come dire che voi avete una paura fottuta di voi stessi.

Il peggior nemico di voi stessi non sono gli altri, i demoni,  gli Arconti, gli Annunaki, gli alieni, i voladores, gli esseri inorganici.
 Il peggior nemico di voi stessi siete voi stessi (in stato di ignoranza, identificazione, incantamento).

Se questa notizia non sblocca un ricordo, non aziona un campanello d’allarme o se non vi lascia sbalorditi vuol dire che non avete la più pallida idea della portata di questo messaggio.

Per semplificare all’osso faccio un esempio banale: chi inizia una dieta o un periodo di digiuno si accorge che più il digiuno funziona, più si verificano meccanismi di autosabotaggio. La parte malsana o parassitaria, quella che ama mangiare cibo spazzatura, si farà sentire e tenterà di mettere i bastoni tra le ruote: vi farà fare uno sgarro dopo l’altro, quasi contro la vostra buona volontà. E mentre sgarrate vi accorgete che in voi c’è qualcosa che vuole fallire, non vuole davvero dimagrire, non vuole depurarsi, non vuole essere ciò che sta diventando (magro, snello, sportivo ).

Il malsano odia il sano, non lo vuole, lo teme perché comporta la sua dissoluzione.

Nell’esempio della Grazia, l’ego (l’io, la persona che credete di essere) ha paura dell’autorealizzazione perché potrebbe (e lo farà senza ombra di dubbio) destabilizzare l’identità abituale, intaccando la percezione di ciò che avete sempre creduto di essere. Se vi suona strano e assurdo è perché è davvero assurdo: è assurdo come ritrovarsi nei panni di una donna dopo aver creduto di essere un uomo per tutta la propria vita.

Per quanto crediate di volervi autorealizzare, o per quanto crediate di voler vivere in uno stato di grazia perenne, c’è una parte di voi che farà di tutto per impedire, posticipare, rallentare quell’evento.

Realizzare di non essere solo una persona, un essere umano, un ridicolo personaggio sociale, può turbare profondamente il ridicolo personaggio che credete di essere.

Percepire prematuramente gli effetti della beatitudine può essere destabilizzante proprio come la disintossicazione totale risulta inizialmente destabilizzante per un tossicodipendente. Se quell’individuo viene seguito per bene, o se in lui maturano alcune qualità, la fase destabilizzante può essere superata senza gravi ripercussioni.

Il mio consiglio è di non ignorare l’istinto del corpo: se non vi sentite pronti per la beatitudine vuol dire che non è giunto il momento giusto, oppure c’è ancora una piccola resistenza dovuta a qualche attaccamento (vizio, desiderio, capriccio, timore infondato, credenza, superstizione). Quel piccolo residuo psicoemotivo va tenuto in debita considerazione prima di voler conoscere o sperimentare la beatitudine. La falsa identità, se non è stata trascesa o almeno riconosciuta, rischia di scatenare un bordello insensato facendovi passare da uno stato di grazia a uno stato di terrore. Non potete far piacere la beatitudine all’ego, all’intelletto, al demone che vuole abitare quel corpo, perché quel nettare non è di suo gradimento come un medicinale non è gradito a un parassita.

Ora, indirettamente, sapete anche perché la maggioranza dell’umanità vive (ragiona, parla, reagisce) in quel modo.

A prova di questo discorso vi posso portare l’esempio di alcuni lettori che mi hanno espressamente fatto capire che non appena percepivano un briciolo di beatitudine iniziavano a sentirsi minacciati: da una parte erano attratti da quell’esperienza, dall’altro lato temevano di farsi risucchiare da quello stato di grazia.

Sapevano che era ciò che cercavano, ciò che avevano sempre desiderato, ciò che dava un senso alla loro insensata ricerca spirituale, però sapevano anche che quello stato di grazia avrebbe azzerato tutte le loro velleità mondane.

Ciò che temevano era la riconfigurazione della loro percezione e dissoluzione della loro identità.

Quando gli faccio fare qualche esercitazione per riconfigurare la loro percezione, si accorgono che sotto sotto li sto mettendo all’angolo, sto incastrando il loro ego, sto fottendo il loro intelletto. E il buffo è che quando si accorgono che qualcosa funziona si preoccupano, si agitano perché il loro ego si sente minacciato.

Uno che ha assaggiato qualche stato di grazia mi ha detto che se anche gli si offrisse nuovamente la grazia su un vassoio d’argento la rifiuterebbe perché si tratta di qualcosa di troppo stupendo e inspiegabile. Poi ha aggiunto: preferirei il dispiacere e il malessere a cui sono abituato piuttosto che avere quel flusso di beatitudine.

Se quella risposta vi sembra strana non avete capito di cosa stiamo parlando.

Quella reazione non è l’eccezione ma la norma; è la reazione della mente umana di fronte a un’esplosione di pace, quiete, spensieratezza.

Si tratta di qualcosa di spaventosamente magnifico per ciò a cui siamo abituati.

Che ci crediate o meno, ciò che credete erroneamente di essere non vuole la beatitudine.

Quella roba lì che chiamate “io” non vuole risolvere davvero i vostri problemi, non vuole disfarsi della sofferenza inutile, non vuole la pace (vostra o altrui), e ovviamente non vuole l’autorealizzazione.

I piccoli momenti di afflizione (disagio, tensione, nervosismo) sono ciò che sorreggono la vostra identità abituale, e senza quei momenti di tensione (ansia, agitazione, rabbia) rischiereste di non sentirvi più voi stessi.

Spero che lo stato di grazia vi consenta di dare il colpo di grazia a ciò che credete di essere.

Parafrasando Meister Eckhart (da non confondere con Eckhart Tolle), l’unica cosa che brucerà all’inferno è la parte di voi allergica alla beatitudine.
Per dirla con la mia finezza, l’unica parte di voi che perderete – o che verrà gravemente compromessa con la beatitudine – sarà la vostra gran testa di cazzo.
Se fossi un amico (del vostro ego) vi direi di andarci piano con la verità, vi consiglierei di temporeggiare con gli stati alterati di coscienza, ma visto che non ci tengo a fare amicizia con voi vi auguro che la vostra personalità venga dannatamente incenerita da bruschi e frequenti lampi di lucidità.

(ZeRo)

Qual era il lavoro di Gesù e Buddha?

Nella società odierna come potremmo definire l’attività sociale di Gesù e Buddha?
Potremmo definirli Influencer Spirituali.
E qual era lo scopo principale del loro insegnamento?
Indipendentemente dal linguaggio, dalle metafore, dalle parabole, dalle pratiche, dalle preghiere, dai miracoli, il tema centrale di Cristo e del Buddha rimaneva sempre uno, la Verità.
In pratica il loro lavoro consisteva nel dirigere sistematicamente l’attenzione verso la Verità.
E noi dovremmo fare lo stesso lavoro, ogni giorno, ininterrottamente, in qualunque circostanza, di fronte a chiunque, senza paura delle ripercussioni.
La ricompensa sarà la Verità stessa e nient’altro.
E la Verità non è poco…
La Verità è come il fondale del tuo essere.
Se il tuo essere appoggia su un fondale saldo, stabile, duraturo, la conseguenza sarà il benessere, la tranquillità, la sicurezza.
Se ti appoggi su un fondale inconsistente, instabile, precario, debole, vivrai nel malessere, nella paura, nell’insicurezza.
Scegliere la Verità è come scegliere le migliori fondamenta della tua esistenza.
Scegliere qualcosa d’altro significa scegliere le peggiori fondamenta per il tuo presente e per il futuro.
Come vedi alla fine la scelta non è difficile… anzi, in verità se vuoi stare bene non hai scelta.
Domandati quali sono le fondamenta del sistema sociale, o le fondamenta del sistema cognitivo (individuale e collettivo), e troverai molte semplici risposte che ti toglieranno qualunque dubbio.
Ciascun individuo è responsabile delle fondamenta del proprio essere, nessuno escluso.
(ZeRo)