Più credo in “me”, più ho paura…

L’altro giorno un tizio (o una tizia) ha lasciato un commento interessante: “credo ancora in me perché ho paura”.

Per l’esattezza ha scritto: “So che dormo ma non riesco a svegliarmi.. credo ancora in me perché ho paura..”.

Poi è sparito/a e non ha lasciato ulteriori dettagli, indizi, richieste particolari, per cui non ho potuto approfondire la questione, ma quel commento era più che sufficiente per sviluppare questa riflessione che non riguarda soltanto quell’individuo ma la maggioranza dell’umanità.

Di solito non prendo in considerazione i commenti e se li prendo in considerazione cerco di tagliare corto, soprattutto perché so che il commentatore di turno vuole tirare lunga una prevedibile storia personale che non ha nulla di personale e che finisce con un prevedibile non lieto fine: è sempre la solita solfa, ma lui (o lei) crede che gli stia accadendo qualcosa di “unico, speciale, straordinario” (sia in positivo che negativo). E invece non c’è nulla di straordinario in quello che accade nella vita di un qualunque ridicolo personaggio umano assuefatto e incantato dal mondo delle apparenze.

Tornando a quel commentatore, quell’individuo si è accorto che quella “paura” è correlata a ciò che crede di essere, ciò che chiamiamo “io” o “me”.

Si è accorto che non si sta bene in compagnia di sé – quando quel sé è un maniacale “me”.

Si è reso conto che più crede in quel “me”,  più si sente a disagio: più si chiude in sé e più l’esistenza diventa opprimente.

In stato di egocentrismo (la condizione normale di un qualunque essere umano) si sta malissimo perché si vive segregati in una falsa identità: è come vivere con una camicia di forza che ti impedisce qualunque movimento, ti irrigidisce i muscoli, ti soffoca, non ti fa dormire bene, ti impedisce di esprimere ciò che potresti o vorresti esprimere.

Questa è l’identità abituale di quasi tutti gli umani: una presenza sgradevole, tossica, nauseante, nevrotica, handicappata, impedita, ritardata.

Quello là fa bene a diffidare di sé (o della sua identità abituale) perché quella roba non solo è incredibilmente spiacevole ma è anche incredibilmente schifosa.

Finalmente ha sentito il tanfo della propria persona, il tanfo del suo intelletto, il tanfo del suo io, e finalmente ha reagito nel modo corretto: con disprezzo, orrore, rifiuto.

Come si può apprezzare una schifezza del genere e poi pretendere di essere felici, compassionevoli, spensierati?

Quella roba che aleggia nella mente umana è l’antitesi della compassione, della spensieratezza, della pace.

In quel commento anonimo c’è stato un riconoscimento interessante.

Quell’individuo ha (involontariamente) constatato qualcosa di importante: la credenza in sé, nel proprio io, in ciò che crede di essere, produce paura, insicurezza, disagio, titubanza, delusione, insoddisfazione.

Quello che forse non ha notato è che fa anche schifo.

Non ho scritto che quell’individuo fa schifo ma che lui (o lei) quando vive in quella pseudo-identità fa schifo.

Quell’essere schifoso che quasi tutti chiamano io (oppure gli danno un nome e cognome – Maurizio, Gianni, Maria, Francesco, Marisa) è di una schifezza abominevole, è un aborto partorito da una mente malata (la mente dell’uomo comune).

Forse quel tizio si è anche accorto che le altre persone, incluse le persone a cui vuole bene, quando sono identificate con quella roba schifosa, fanno altrettanto paura e sono altrettanto schifose.

Cosa può uscire da qualcosa di schifoso?

L’identità abituale è un abominio ed è normale che una roba del genere (ciò che credete erroneamente di essere) non produca contentezza, allegria, buonumore, tranquillità, fiducia.

La sfiducia che quella persona prova nei confronti di ciò che crede di essere è il punto di partenza per disfarsi di ciò che ha creduto di essere per tutti questi anni e – gradualmente – riconoscere ciò che è.

Molti non riconoscono il valore di quella sfiducia perché in fondo si tratta di mettere in questione proprio il fulcro della propria esistenza: se stessi, l’idea che si ha di sé oppure la percezione di se stessi.

Quel tizio ha fatto un’associazione mentale interessante:  “più credo in me” e più “ho paura”.

Ha intuito che quella credenza in quel me produce indesiderabili effetti collaterali (psicologici, neurologici, fisiologici, relazionali).

Ha presagito che il “me” in cui crede non deve essere qualcosa in cui vale la pena credere perché altrimenti – se fosse qualcosa di utile o benefico – non produrrebbe ciò che produce nella vita di molte persone: tensione, disperazione, insicurezza, agitazione, instabilità, frenesia, confusione.

Ha intuito che non dovrebbe credere nella persona che crede di essere, tuttavia – come molti altri – non sa come smettere di credere in ciò che ha sempre creduto di essere.

Ha intuito che sta credendo in qualcosa che non è benefico, cioè “funzionale” al suo benessere, eppure – anche dopo questa constatazione – una parte della sua mente continua a crederci.

Come mai?

Perché sbrogliare quella matassa non è un gioco da ragazzi.

Se fosse una passeggiata non percepireste tutto ciò che siete soliti percepire; la vostra mente non vi farebbe impazzire, non sparerebbe cazzate dalla mattina alla sera, non vi infastidirebbe, non produrrebbe tutti quei contenuti inutili e fastidiosi (preoccupazioni, dubbi, dilemmi, timori, aspettative, superstizioni).

Quell’individuo ha almeno avuto il coraggio di fare ciò che dovrebbero fare tutti gli esseri umani: accorgersi e ammettere che in loro – nella propria persona, nella propria pseudo-identità, nella propria testa di cazzo – c’è qualcosa che non quadra, c’è qualcosa di incredibilmente assurdo, disfunzionale, destabilizzante.

Senza quella prima, sincera, amara ammissione, tutte le terapie, le sessioni psicoterapeutiche, i mantra, le ore di meditazione, le scampanate tibetane, non serviranno a un cazzo: al massimo rafforzeranno quella pseudo-identità che non era stata intravista nei precedenti 80 anni della propria schifosa esistenza da ridicolo personaggio umano.

Se invece si vuole godere dei frutti dell’esistenza, vivere in uno stato di grazia, usufruire dei diritti elargiti dal Cosmo, allora occorre innanzitutto fare una cosa: sbarazzarsi di quella schifosa pseudo-identità.

Nascere (e rinascere) ignorando e confondendo la propria identità è la peggior disgrazia che possa capitare a qualunque essere senziente.

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